24.10.25

Interviste

Federico Marchetti: "Non ho mai mollato"

L`intervista all`ex portiere biancoceleste

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L`ex portiere biancoceleste Federico Marchetti, 194 presenze dal 2011 al 2018 e protagonista della vittoria della Coppa Italia 2012/2013, ha raccontato la i suoi anni alla Lazio a sslazio.it.


Cosa ti ha insegnato l’esperienza a Malta?
«Dato che i miei ultimi anni in Italia erano stati principalmente da secondo portiere, ho sofferto poco il distacco dal calcio. Sono andato a Malta convito dal mio amico ed ex compagno Luciano Zauri, che allenava l’Ħamrun Spartans Football Club. Ho giocato alcune partite europee, viverle a 40 anni è stato bello. Vivere a Malta poi mi ha aiutato a migliorare il mio inglese, anche mio figlio di 4 anni si è trovato bene. Direi che sia stata un’esperienza di vita più che calcistica».


194 presenze con la Lazio e un’infinità di ricordi.
«Tantissimi, peccato solo per il modo in cui sia finita, un po’ dietro le quinte. Però preferisco ricordare solo le cose belle, come la vittoria nel derby del 26 maggio, che rimarrà per sempre».


A proposito di 26 maggio, preferivate affrontare la Roma o l’Inter in finale?
«Non avevamo preferenze, avevamo visto il tabellone e sapevamo che ci sarebbe stata questa possibilità. Eravamo sereni, consapevoli dei nostri mezzi. A dicembre eravamo primi, poi anche per colpa degli infortuni ci siamo persi per poi ritrovarci nel momento decisivo della stagione».


Che percorso fu quello del 2013?
«Particolare, non fu facile arrivare in finale. Contro Siena e Catania giocarono Carrizo e Bizzarri, io rientrai con la Juventus e furono due partite senza respiro. Nella gara di ritorno accadde di tutto, l’ultima parola però fu la mia parata su Giovinco».


Come fu la settimana di Norcia?
«Fu una settimana lunga e dura. Il giovedì organizzammo una cena in centro a Norcia, dove rientrammo a mezzanotte. Quella serata però ci permise di allentare la tanta tensione che c’era, anche perché eravamo lontani anche dalle nostre famiglie».


Quanto fu liberatoria la vittoria nel derby del 2011?
«Il derby, quando ero a Cagliari, lo avevo visto solo da fuori. Ero curioso. La Lazio ne aveva persi cinque di fila, ricordo che già dal martedì precedente alla partita c’erano i tifosi a Formello. Reja all’epoca aveva salvato la squadra e fatto bene però nei derby non era stato fortunato. Fino a quella sera».


Ricordi ancora il palo di Cissé?
«Lo ricordo benissimo. Se quella palla fosse entrata, sarebbe cambiata anche l’avventura di Djibril alla Lazio, magari oggi lo avremmo ricordato insieme a Klose. Quella coppia aveva un potenziale incredibile, peccato».


È stato il Marchetti del 2012/2013 il più forte?
«Sì, anche se fu la stagione in cui venni sollecitato più volte. Aiutarono anche i risultati, oltre alla vittoria della Coppa Italia partimmo bene in campionato e uscimmo dall’Europa League ai quarti di finale in modo disonesto, per colpa di un arbitraggio discutibile. Avremmo meritato di andarci noi in semifinale».


Domanda scontata: è Klose il compagno di squadra più forte?
«Miro era una leggenda, un fuoriclasse in campo e fuori. Non posso non dire lui».


Quello che avrebbe potuto fare di più?
«Ce ne sono stati molti, mi dispiace per chi non citerò. Morrison prometteva numeri clamorosi però al primo posto metto Zarate. Quando tornò dal prestito all’Inter purtroppo non riuscì a confermare totalmente le magie del suo primo anno di Lazio. Come portiere invece dico Guerrieri: aveva vinto il titolo di miglior giocatore, non solo portiere, del campionato Primavera. Peccato che non sia riuscito a consacrarsi anche tra i grandi».


È vero che andavi allo stadio sempre con la maglia di Lulic?
«Purtroppo non vado allo stadio dalla festa per il decennale del 26 maggio contro la Cremonese, finalmente però domenica tornerò per Lazio-Juventus insieme alla mia famiglia. Spero di portare bene e aiutare la squadra di Sarri a conquistare la prima vittoria della stagione contro una big».


Domenica probabilmente incrocerai anche Radu, che allo stadio non manca mai.
«La Lazio è la sua seconda pelle, il Boss dimostra quotidianamente il suo attaccamento a questi colori. Non capita spesso di vedere una leggenda di un club andare a tifare la sua ex squadra anche in trasferta».


Quanto sei felice per Cataldi che ha ritrovato la Lazio?
«Ho visto Danilo crescere, so quanto sia legato a questi colori e anche quanto sia forte. È un vero laziale, sono molto contento per lui perché ama la Lazio ed è il suo primo tifoso».


Quanto era dominante Felipe Anderson nel 2014/2015?
«Felipe esplose dopo l’infortunio di Candreva. Cosa aggiungere? Aveva qualità incredibili, vinceva le partite da solo. Anche lui dopo purtroppo non è riuscito a mantenersi su quei livelli ma non ho mai visto nessuno avere un impatto come il suo in quel periodo».


Flash su altri tre calciatori: Mauri, Lulic e Ledesma.
«L’intelligenza tattica e tecnica di Mauri. Lulic il condottiero per tanti anni e l’eroe del 26 maggio. Ledesma che giocò con un giallo pesante dopo pochi minuti nel derby. Un altro grande calciatore che ha fatto dell’intelligenza il suo punto di forza».


La parata più bella?
«La più bella rimane quella sul tiro di Vidal, deviato da Quagliarella, nello 0-0 contro la Juventus. Sicuramente fu prestigiosa per la location, considerato anche che i bianconeri in casa battevano chiunque. La parata su Totti nella finale di Coppa Italia però ci ha regalato un trofeo storico: quella fu la parata più emozionante. Anche grazie a quell’intervento il gol di Lulic è diventato immortale».


Quanto fu bella la notte di Napoli del maggio 2015, dove praticamente giocasti da infortunato?
«Fu meravigliosa, una rivincita personale dopo alcuni problemi superati. Raggiungemmo un piazzamento importante, ho dei ricordi pazzeschi di quella notte. Ci davano tutti per spacciati e invece mostrammo le qualità di quel gruppo. Dopo 15’ mi strappai i dorsali della schiena, fu dolorosissimo. Il nostro medico di allora, Stefano Salvatori, con il Toradol mi aiutò a finire la partita. Solo che dopo il rigore sbagliato da Higuain mi dimenticai di questo infortunio ed esultai, non posso nemmeno spiegare il dolore che provai. Alla fine quel problema mi fece saltare le due partite successive della Nazionale con Conte. Se avessi avuto meno infortuni e più continuità, mi sarei goduto molto di più la mia storia con la Lazio».


Difficile anche spiegare il fischio misterioso di Udine di tre anni prima…
«Quanto mi arrabbiai! Presi cinque giornate di squalifica, fu un finale rocambolesco. Ero salito a metà campo, eravamo tutti in avanti per cercare il pareggio. Sentii questo cavolo di fischio e mi buttai per terra, disperato per la sconfitta. Alzai lo sguardo e vidi l’Udinese andare a segnare praticamente a porta vuota, subito dopo scoppiò un putiferio. Purtroppo in quei due anni la fortuna non ci aiutò contro i friulani, visto che ci strapparono sempre un posto in Champions».


Chi avrebbe meritato di più la qualificazione in Champions League tra la Lazio di Reja e quella di Pioli?
«Credo la Lazio di Pioli. Stimo e sono legato a Reja, che per me è stato praticamente come un padre. In quegli anni però perdemmo troppi punti in casa contro le piccole, mentre con Pioli forse la squadra fu più continua, peccato solo per i due derby buttati via. Avremmo meritato di vincerli entrambi. Il rigore sbagliato da Higuain fu una piccola ricompensa dopo la sconfitta immeritata contro la Roma e la finale di Coppa Italia persa contro la Juventus con il doppio palo di Djordjevic. A Napoli la fortuna finalmente ci sorrise, anche se meritammo comunque la vittoria».


Fortuna che ci abbandonerà nuovamente pochi mesi dopo nel ritorno dei playoff di Champions League a Leverkusen, con mezza squadra infortunata.
«Andammo in Germania in piena emergenza, io saltai anche la gara di andata. Quello sicuramente fu forse il vero grande rammarico».


Chi ti ha sorpreso di più tra Petkovic, Pioli e Inzaghi?
«Petkovic e Pioli hanno fatto il loro percorso, vincendo e ottenendo grandi risultati. Inzaghi però ha fatto qualcosa di incredibile, per me non fu una sorpresa. La sua evoluzione è stata pazzesca, la sua Lazio era fortissima. Senza Covid, nel 2020 avrebbe lottato sicuramente per lo scudetto. Era un piacere vederli giocare, davano lezioni di calcio a tutti. Quello che poi ha fatto con l’Inter è sotto gli occhi di tutti».


Tre pilastri di quella squadra erano Luis Alberto, Milinkovic e Immobile.
«Hanno tanti meriti ma forse ne ha di più Inzaghi. Luis Alberto arrivò dal Liverpool praticamente da sconosciuto come attaccante esterno. Simone gli cambiò ruolo e lo esaltò, facendoci godere. Con Immobile ho giocato il mio ultimo anno, si è giustamente consacrato come “Re Ciro”. Sergej invece doveva solo ambientarsi, una volta che lo ha fatto è diventato devastante. Peccato, se fossi arrivato a 30 anni a giocare con loro mi sarei davvero divertito».


Puoi raccontare le dimissioni minacciate da Reja prima di Atletico Madrid-Lazio?
«Era una sua tattica, tutta strategia (ride, ndr). Il mister voleva dare uno scossone all’ambiente ed ebbe ragione visto che ci riprendemmo per il finale di stagione chiudendo bene».


Chissà invece come si sarà sentito Mbakogu, al quale parasti due rigori durante Carpi-Lazio.
«In quella partita ci giocavamo poco, a differenza del Carpi che doveva vincere per salvarsi. Avevano addosso molta pressione. Ipnotizzai Mbakogu due volte dal dischetto, entrando nella ristretta lista di chi è riuscito a parare due rigori nella stessa partita».


Quanto ti avrebbe aiutato incontrare prima la tua compagna Lorena e successivamente tuo figlio Edoardo?
«Avrebbe cambiato la mia carriera nel durante. Ora il tema della salute mentale di un atleta è stato sdoganato, visto che sono state inserite numerose nuove figure di professionisti. Io ebbi due periodi molto duri: il primo nel 2013/2014, dove giocai poco non solo per gli infortuni. Questo malessere interiore tornò poi nel 2016/2017, avevo un problema da risolvere. Alla fine ci sono riuscito ma non è stato facile».


Insomma, sei sempre ripartito…
«Sempre, non mi sono mai arreso alle botte arrivate dalla vita. Sono stato cazzuto, reagendo a tutto. Questa è la cosa più importante. Mi sono rialzato anche dopo il disastroso Mondiale del 2010. A proposito, spero che Gattuso ci riporti finalmente dove meritiamo di stare. Tornando a me, l’anno di inattività di Cagliari fu devastante. Venni messo fuori rosa per aver rilasciato un’intervista che non voleva essere assolutamente polemica, dissi semplicemente che avrei sperato di andare alla Sampdoria che faceva la Champions, invece scoppiò il caos. Rimasi fuori rosa un anno, quando firmai con la Lazio tornai al mio posto in campo. Fu una liberazione. Oggi sono un uomo felice, ho una mia famiglia e tanti ricordi meravigliosi, contento di quanto ottenuto. Aggiungo solo un’ultima cosa».


E comunque il tuo futuro sarà sempre nel calcio.
«Mi sto formando, alcuni miei ex compagni di squadra mi hanno proposto di andare a lavorare con loro ma per almeno un anno voglio investire su me stesso. Attualmente ho il patentino UEFA B, che mi permette di allenare fino alla Primavera e in Serie D. Sto però continuando a studiare perché hanno riformulato le licenze, vorrei prendere tutto quello che serve per allenare i portieri in Serie A e più avanti prendere anche l’UEFA A. Inizio studiando il ruolo che ho vissuto ma non ho al momento una preferenza. Più avanti vedremo, chissà… Aggiungo solo un’ultima cosa ».


Prego.
«L’affetto dei tifosi della Lazio che ricevo ancora oggi è un qualcosa di impagabile. Sono molto orgoglioso di questo. A questo club ho dato e ricevuto tanto, non potrei mai dimenticarlo».


Affetto meritato. Chiudo con una curiosità: perché nel secondo tempo entravi in campo senza guanti e con gli scarpini slacciati?
«Sfatiamo questa storia, che spesso è stata associata alla superstizione. Lavavo gli scarpini a fine primo tempo e successivamente li indossavo per rientrare. A me però piaceva indossare la scarpa stretta, così stringevo i lacci appena iniziava il secondo tempo. Una volta sistemati gli scarpini, indossavo i guanti. Se però l’arbitro non se ne accorgeva, il gioco riprendeva. Ricordo ancora le facce dei tifosi alle mie spalle, increduli nel vedere gli avversari attaccare con me in porta ancora senza guanti».


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